Resoconto torneo di Modena

I primi raggi del sole cominciarono a levarsi all'orizzonte, spazzando via dal cielo le tenebre della notte. L'accampamento era ancora immerso nel silenzio, ma Bankûr era già sveglio, come sempre. Levò lo sguardo ad Est, verso la luce dorata dell'alba, verso la propria terra. La sua mente ripercorse veloce le centinaia e centinaia di miglia che lo separavano da casa, come un viaggio a ritroso nello spazio e nel tempo. Attraversò terre pietrose e desolate, via via sempre più indietro, sempre più a oriente, tra le grandi pianure, fino alle sponde del mare interno, al suo villaggio. Era nato e cresciuto accanto al mare, nato e cresciuto tra la dura disciplina militare e il fanatico culto di un'oscura potenza. In quel luogo era diventato uomo e guerriero, e in quel luogo la cieca furia instillatagli sin dalla fanciullezza era stata messa al servizio di quel padrone che i sacerdoti adoravano con folle ardore. Come tutti i giovani, aveva presto impugnato le armi per dimostrare il proprio valore, per dare la morte ai nemici del proprio dio, per morire in nome del proprio dio. E l'aveva dimostrato, il proprio valore: Osgiliath, Ithilien, Colli Ferrosi. Molti erano caduti per mano della sua spada, e Bankûr era stato ricoperto di onori e ricchezze, assurgendo fino ai ranghi più alti della gerarchia. Un tempo giovane soldato, si ritrovava ora a comandare intere armate, all'alba di una guerra che avrebbe cambiato il mondo.
La chiamata era giunta poche settimane addietro, Bankûr ricordava perfettamente quel momento, scolpito per sempre nella sua memoria. L'emissario del loro dio era giunto con le tenebre, e i sacerdoti avevano celebrato riti in suo onore alla presenza del Re e dell'Ordine dei Cavalieri Dragone. L'emissario aveva poi parlato in privato con il Re e le alte personalità dell'esercito, e il generale Bankûr era tra loro. Ricordava ogni singola parola, e il fervore che avevano provocato in tutti loro. Il loro dio li chiamava alla guerra, e così Bankûr era partito, con la benedizione del Sommo Sacerdote, alla testa di migliaia di uomini. La sua mente percorse di nuovo le centinaia di miglia che avevano attraversato e che lo separavano dalla sua patria, dalle sponde del mare, attraverso pianure e terre desolate. Il cerchio del sole era infine emerso dalla terra e ora splendeva in tutta la sua gloria, scrutando il mondo come un grande occhio infuocato.
Dopo un ultimo sguardo ad Est, Bankûr si voltò. Gli Ered Lithui incombevano alla loro sinistra, brulli e desolati come la terra che circondavano. Erano vicini: in lontananza, a Ovest, a non più di due giorni di marcia, si trovava la grande piana di Dagorlad e affacciato su di essa si ergeva il nero ingresso per il Paradiso. Bankûr ancora stentava a crederci: dopo anni di battaglie in suo nome, presto sarebbe stato al cospetto del suo dio. Raccolse da terra l'elmo dorato e lo indossò. L'accampamento cominciava ad animarsi, i vessilli del Drago venivano innalzati. Era ora di partire. Verso Mordor, verso la guerra.


<<In piedi, snaga!>>
La frusta sferzò la nuda schiena dello schiavo, ancora, e ancora. Con un lamento, quella fragile creatura ricurva cercò di alzarsi, ma le sue gambe cedettero.
<<In piedi ho detto, o ti ammazzerò sul posto, lurido verme!>>
Questa volta la mazza era pronta a calare su di lui, e lo schiavo, facendo appello a ogni briciolo di forza rimastagli, riuscì ad alzarsi.
<<E ora al lavoro, feccia!>>
Un ultima frustata, per il proprio piacere. Riavvolgendo la sferza, con l'unico occhio buono Gurlak fissò con disprezzo quelle nullità che aveva davanti. Odiava a morte quei piccoletti, fragili e codardi fino al midollo. Di tutte le razze degli Orchi, si chiese perché fosse costretto a lavorare con loro. Poi fissò la propria frusta, e ricordò perché. Il piacere di infliggere dolore con quello strumento di potere era inappagabile. Da quando era stato posto a capo dell'Udûn come sorvegliante aveva in effetti provveduto a procurare a sé stesso molto piacere. Non era portato per il combattimento come gli Orchi soldato di stanza al Morannon, o come quei maledetti Uruk che lo guardavano dall'alto in basso, ma comandare, quello gli riusciva decisamente bene. Comandare i più deboli, poi, era la sua specialità.
<<Più veloci!>> ruggì, facendo schioccare la frusta. <<A Lugbûrz non sentiranno la mancanza di un paio di voi smidollati!>>
All'improvviso, il suono di un corno echeggiò alle sue spalle, proveniente dai Cancelli. Era richiesta la sua presenza.
<<Continuate a lavorare!>> urlò, agitando la mazza. <<Ci penseranno i miei ragazzi a tenervi in riga, e al mio ritorno punirò chi disobbedisce come merita!>>
Le minacce di morte erano sempre efficaci con quei piccoli codardi. Avrebbero svolto il loro lavoro. Gurlak si allontanò e si diresse a passo svelto verso il Morannon. Dovette farsi strada tra un'orda brulicante di Orchi: con l'invasione delle terre al di là del Grande Fiume ormai alle porte, sempre più guerrieri si ammassavano nell'Udûn e una miriade di accampamenti sorgeva ogni giorno come dal nulla. Per non parlare delle migliaia di Uomini del Sud che a intervalli regolari giungevano alle porte di Mordor: il grande cancello veniva aperto giorno e notte per accoglierli tra le schiere di Lugbûrz. Presto, il cancello avrebbe vomitato quell'orda e la piana sarebbe stata svuotata fino all'ultimo Orco. Stando a quel che sapeva, non mancava molto. Di lì a pochi giorni, l'avanguardia di Minas Morgul avrebbe dato il via all'assalto.
Gurlak passò accanto a una rozza tenda di comando ai piedi della torre di destra. Un gruppetto di grossi Orchi in armature pesanti e rosse vesti lacere bloccava il passaggio per le scale. Svolgendo la frusta, Gurlak avanzò tra ruggiti e spintoni. Anche quei soldati dovevano imparare a riconoscere la sua autorità. Quando poco dopo giunse in cima ai bastioni, un paio di sentinelle di guardia si fecero avanti.
<<Capo, movimento a Est>> disse uno, indicando vagamente in quella direzione.
Gurlak scrutò l'orizzonte e in lontananza scorse lo scintillio del sole riflesso sulle armature. Li riconobbe subito.
<<Uomini-Drago>> disse. Li aveva già visti, nelle loro armature dorate. <<Altre Facce Pallide che si uniscono al banchetto. Preparate i Troll!>>
Altro lavoro per la sua frusta.


La colonna procedeva ordinatamente, marciando a ritmo, fiera e splendente nel caldo mattino. Bankûr si trovava come sempre alla testa della schiera. Davanti a loro, distanti ormai solo poche centinaia di metri, si ergevano, incassate sul fianco degli Ered Lithui e degli Ephel Duath, le Torri dei Denti. Proteso nel mezzo, come un'oscura barriera, stava imponente il Nero Cancello. Erano arrivati, finalmente. Il lungo viaggio dall'Est era finalmente giunto al termine. Il cuore di Bankûr si colmò di folle gioia. Il viaggio era finito, sì, ma un altro cominciava, un viaggio che l'avrebbe portato alla più importante battaglia della propria vita. Una raffica di vento li investì, facendo sventolare alti i vessilli del Drago. Bankûr lo sentì sgorgare dal cuore e intonò un canto di guerra, e i suoi uomini risposero come un'unica voce. Lodavano il loro dio, Sauron, Signore della Terra, e promettevano morte ai suoi nemici. Dal Cancello, un corno accolse il loro canto e risuonò come in risposta. Quindi, lentamente, come in un sogno, il Nero Cancello cominciò ad aprirsi.
Bankûr guidò la colonna verso lo spiraglio creatosi, quando all'improvviso un movimento alla sua destra lo allertò. Si voltò, scrutando le pietrose colline. Qualche masso stava rotolando dalla sommità della cresta più vicina, alzando nuvole di polvere. Bankûr si insospettì. Avrebbe potuto trattarsi di spie di Gondor. Quale migliore dono per il suo dio? Non dovette nemmeno parlare: a un suo cenno, due dei suoi uomini si separarono dalla colonna e andarono verso il polverone, picche spianate. Facendo proseguire la marcia, Bankûr si attardò per rimanere ad assistere alla scena. Vide i due picchieri dare un'occhiata in giro, fermarsi un istante, quindi voltarsi e tornare indietro. Che peccato: si era trattato solo di una piccola frana. Pazienza, pensò Bankûr. Presto avrebbe avuto molte vite da offrire al suo dio. I due picchieri si riunirono alla colonna e anche lui si rimise in marcia. Ancora pochi passi.
Mentre varcava la soglia del Paradiso, la sua voce tuonò di nuovo innalzando il canto di guerra. Ancora una volta, i prodi guerrieri che comandava risposero a una sola voce. Il Nero Cancello si chiuse alle loro spalle e li inghiottì.